Come ho scoperto di essere incinta: la mia tragicomica esperienza di maternità

Ott 27, 2020 | Storie di famiglia, Ultime novità | 0 commenti

Come ho scoperto di essere incinta: la mia tragicomica esperienza di maternità

Scritto da Elisabetta Pieragostini

27 Ottobre 2020
Mi sarebbe dovuto arrivare prima o poi quel momento di follia in cui, invece di prenotare un volo per il Polo Nord, mi sarei detta: voglio un figlio. Certo, avrei potuto unire le cose e adottare un elfo di Babbo Natale durante il viaggio nel Polo, ma no. Ho detto proprio “Voglio un figlio”. Un neonato in carne, ossa e cacchette.
Accanto poi avevo, e ho, un uomo che condivideva con me questo desiderio quindi un bel x2 a moltiplicare la mia follia. Niente Polo Nord, solo pancioni.
Benissimo. Decido di rimanere incinta. Molto incinta. Come il film.
Mettiamo in pratica la cosa che, bisogna dirlo, è divertente quindi ci prendo gusto e arriva quel fatidico giorno in cui mi sveglio e mi sento incinta. ‘Na cosa tipo: dai, oggi mi sento bene, bella, figa e molto incinta, fammi andare a fare la spesa che poi finisce l’offerta sui test di gravidanza e già che ci sono compro pure il prosciutto senza polifosfati e le pesche sciroppate.
Esco e compro test di gravidanza come se poi non dovessero produrne più.
Dopo il terzo, tanto non avevo mica da fare, arriva l’esito tanto desiderato quanto incontrovertibile: positivo.
Sono incinta. Molto incinta. Tantissimo incinta. Sono la dea della fertilità.
Naturalmente sono al settimo cielo e inizio subito a fare quelle cose che fanno tutte le donne che scoprono di essere molto incinte, tipo fantasticare sul sesso. Quello del nascituro, non l’altro. Con quello abbiamo già dato e per un po’ ciao, baby.
La mia visione romantica della gravidanza però finisce presto perché inizio a rimettere tutte le mattine. Ogni santissimo giorno da quando mi alzo per 4 lunghi mesi. Sembravo Grisù, quello dei cartoni animati. Un lanciafiamme umano.
Ci si metteva pure mia nonna a dirmi ”Bimba mia, mica è tutta rose e fiori la vita”. Ma io mica li volevo i fiori, io volevo solo smettere di vomitare come un drago. Di rose e fiori i primi mesi neanche l’ombra, solo visite, nausee e stanchezza.
Ora, scusate se rimarco ma è necessario. Provate a immaginare una donna che vomita come l’Etna in eruzione ogni benedetta mattina, arriva al lavoro che sembra uno zombie, sbadiglia continuamente e quando si siede alla scrivania lo fa con la delicatezza di un elefante. Poi torna a casa e sprofonda sul divano addormentandosi come quegli angioletti paffuti dei quadretti per tornare a vomitare di nuovo la mattina dopo.
Quattro mesi così. Fino a quando un bellissimo giorno le nausee lasciano il posto al ritrovato romanticismo e alla gioia di godermi una gravidanza gioiosa e voluta da tutti.
Arriva poi anche il giorno in cui mi dicono che dentro di me stava crescendo una bimba sana e forte, Matilde. E io sono felice. Una felicità che ancora oggi fatico a descrivere.
Matilde ben presto diventa la mia interlocutrice preferita. Le racconto tutto, condivido con lei ogni momento della gravidanza, busso il pancione come le angurie mature, le chiedo se va tutto bene, l’accarezzo come la cosa più preziosa presente sulla Terra e mi godo ogni singolo istante di quel mio stato di ritrovata grazia.
Compro il libro di Cenerentola, nonostante non fossi più una Cenerantola dato il fiato corto che il pancione può causare con l’appesantimento e, tutti i giorni, le faccio ascoltare la mia voce attraverso quella favola, spiegandole quanto la lettura potrà essere una fedele e buona amica e cercando di instaurare quel rapporto di complicità tutta nostra che immaginavo tra madre e figlia, prima che lei mi considerasse una matta totale.
Passano le settimane e arriva l’estate. Io sono gonfia come le zampogne di Natale e provo a cercare ristoro passeggiando in riva al mare. Sempre chiacchierando con Matilde che, poverina, mi doveva sopportare senza possibilità di replica se non i suoi calcetti.
Verso la fine della gravidanza inizia a farsi spazio dentro di me, insieme a Matilde che cresceva a vista d’occhio, anche un misto di sensazioni ed emozioni. Iniziavo a sentire quella tristezza che sentono le mamme quando sanno di dover abbandonare a breve il pancione.
Non ci sarebbe più stato quel tempo sospeso solo nostro. Stavano per terminare i mesi in cui io e Matilde siamo state una cosa sola, 4 occhi, 4 braccia, 4 gambe, 2 bocche da sfamare, e non poco. Due cuori, soprattutto, il mio grande, enorme, che scoppiava d’amore, e il suo, che stava per venire al mondo pronto a battere forte e a crescere tra emozioni e sentimenti tutti da imparare.
Bene, preparo la valigia della partoriente.
Un giorno penso che ci siamo, ma Matilde è poco collaborativa. Io lo sento: le ho parlato troppo e lei è già stanca di tutte ‘ste chiacchiere. Vuole stare dentro ancora un po’ e quindi si mette comoda.
Il ginecologo mi rassicura e, dopo una stimolazione, mi dice che certamente avrei partorito entro la notte.
Macché. Ciao Matilde, si sta bene lì dentro?
Il giorno dopo mi vengono rotte le acque e nel giro di un paio d’ore iniziano i primi dolori e qualche contrazione. Ma Matilde è ancora in alto e non vuole saperne di scendere.
La stanchezza inizia a farsi sentire. Sempre di più. Io inizio a vacillare e tutte le emozioni che ho dentro stanno per esplodere. Anche il ginecologo ci mette il carico sostenendo che ho il bacino stretto da ex ginnasta.
Sono stanca.
Il ginecologo, dopo molte ore, decide che è necessario il cesareo e così, alle 21:00, ho l’infinto e sfinito piacere di conoscere la persona più importante della mia vita: Matilde.
Ben arrivata, batuffolo.
Me la appoggiano sulla pancia che urlava con un pianto disperato, neanche l’avessero maltrattata, ma appena la chiamo per un attimo si ferma. Ha riconosciuto la mia voce, quella voce che sentiva attraverso me tutti i giorni. Matilde mi ha riconosciuto come sua mamma.
Ed ecco che inizia la nuova vita, fatta di pianti, sorrisi, pappe, ciucci, pannolini. Poi quando diventerà grande un bel calcio nel sedere e andrà giustamente per la sua strada.

Cicli, pomeriggi e sorprese

Un pomeriggio ero a casa con Matilde che aveva 1 anno e 7 mesi, per dirla in gergo mammesco 19 mesi, come una forma di Parmigiano e arriva mia nipote Ludovica in cerca di un assorbente.
Vado in bagno a cercarlo ma non ne ho.
Ludovica mi chiede come fosse possibile dato che il mese scorso avevamo avuto il ciclo insieme e mi dice “Ma non è che sei incinta?”.
Ma de che. Che stai dicendo. Tipo che mi torna su anche lo zampone del Capodanno precedente dalla paura.
Ludovica esce a comprare un test di gravidanza e io lo faccio per dimostrarle che si stava sbagliando e che non ero incint… Sono incinta.
Sono incinta. Sono di nuovo molto incinta.
Matilde era piccola e io ero così presa da tutto da non essermi accorta nemmeno del ritardo.
Piango, urlo e telefono a Paolo, mio marito, che era all’estero per lavoro. Paolo pensa che sia uno scherzo. Medita già metodi creativi di suicidio dall’ultimo piano dell’hotel.
Non cercavamo un altro bimbo e io non mi vergogno nemmeno a dire che in quel momento non lo volevo perché ero totalmente assorbita da Matilde che era piccolissima e aveva ancora bisogno di tutte le mie attenzioni.
Ma quel secondo bambino ora c’era. Era venuto a trovarci anche se non lo avevamo cercato.
Quel secondo fagiolino sarebbe diventato Viola, la mia seconda bimba.
La seconda gravidanza è stata molto diversa dalla prima. Non avevo il tempo di fare la matta come con Matilde. In comune ci sono solo i primi 4 mesi di vomito stile libero.
Dentro di me si facevano spazio sensi di colpa, mi sentivo responsabile di aver tolto tempo a Matilde, quello necessario a una bimba di un anno e mezzo.
Sensi di colpa che, come su un’altalena un po’ spingevo e un po’ allontanavo per non sentirmi una pessima madre.
Quando è nata Viola tutto è cambiato. Era così bella e morbidosa, così profumata e sorridente, che di nuovo il cuore mi scoppiava di gioia.
Allora sapete cosa ho pensato: stai a vedere che in tutto ‘sto casino ho fatto a Matilde uno dei più bei regali della vita, avere una sorella.
Ora sono lì che mi fanno disperare. Ci leggiamo la prossima volta.

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