Negli ultimi anni si è parlato tanto di welfare aziendale. A volte mi sembra quasi che stia diventando una parola di moda, un’etichetta da appiccicare a ogni benefit, come se bastasse offrire il cesto di Natale o l’abbonamento in palestra per dire: “Facciamo welfare”.
Per me, che vivo l’azienda ogni giorno non solo come imprenditrice, ma come persona profondamente convinta che il lavoro debba essere uno spazio di dignità, rispetto e crescita, il welfare è molto di più. È una visione, una cultura, è scegliere di prendersi cura delle persone che lavorano con noi. È costruire un luogo in cui ci si possa sentire visti, accolti, valorizzati e dove il benessere non è un premio, ma un diritto.
Come vedo il concetto e la pratica del welfare aziendale
Il welfare aziendale è uno specchio della cultura di un’organizzazione. Non è solo un insieme di servizi, è un messaggio autentico, coerente, strutturato.
Credo profondamente che il tempo sia il primo indicatore di rispetto. Se un’azienda sa ascoltare davvero, allora capisce che la flessibilità non significa disorganizzazione, ma fiducia. Smart working, orari adattabili, congedi che non penalizzano la carriera, supporto concreto alla genitorialità: non basta dire che si “accoglie” chi è genitore. Serve creare un ecosistema che renda sostenibile lavorare e crescere dei figli, senza sensi di colpa o burnout. Non solo maternità, ma anche paternità, genitorialità condivisa, supporto psicologico, servizi per l’infanzia. È qui che si gioca la vera partita delle pari opportunità; sono questi i gesti che permettono a una persona di essere presente, a lavoro e nella propria vita.
Nel mio percorso, come imprenditrice e come formatrice, ho visto troppe donne rinunciare, troppe madri sentirsi colpevoli, troppi padri tagliati fuori.
Cambiare punto di vista
Serve cambiare lo sguardo: il welfare non è un favore che facciamo, è un patto che rinnoviamo ogni giorno con chi condivide il proprio tempo e talento con noi. Viviamo in un’epoca in cui il tempo è la vera moneta rara.
Il benessere non è solo fisico, in azienda, conta moltissimo il clima interno, la qualità delle relazioni, la sicurezza psicologica. Un welfare serio deve includere spazi di ascolto, percorsi di formazione sulle soft skill relazionali, strumenti per gestire il conflitto, e una tolleranza zero verso le molestie e le discriminazioni, anche sottili. Investire su questo significa costruire un ambiente dove ognuno può sentirsi al sicuro, riconosciuto, valorizzato e dove la diversità è un arricchimento e non un ostacolo.
Io sogno aziende dove non ci si vergogna di dire “ho bisogno di aiuto”, “sto vivendo un momento difficile”, “vorrei parlare con qualcuno”; vorrei aziende che sappiano costruire non solo processi efficienti, ma relazioni sane.
Welfare aziendale come inclusione di ogni fragilità
Il welfare, per come lo intendo io, deve avere la capacità di includere chi è in una situazione di fragilità. Persone con disabilità, caregiver familiari, chi sta attraversando un lutto o una crisi, o chi sta vivendo un momento difficile. In azienda queste persone esistono, ci camminano accanto. Il punto è: le vediamo davvero?
Un buon welfare dovrebbe partire proprio da qui: da ciò che sembra più scomodo, più invisibile; offrire supporto, adattare i ruoli, ascoltare senza giudicare. Includere davvero. Questa è per me la più alta forma di rispetto.
Un’azienda che ha cura delle fragilità, che non mette da parte ma integra, che non si vergogna di parlare di salute mentale, è un’azienda davvero contemporanea.
Una cosa fondamentale è che il welfare deve essere costruito insieme. Non può essere un pacchetto preconfezionato deciso dalla direzione. Deve nascere dall’ascolto, dal confronto, da un dialogo sincero con le persone. Il welfare deve essere co-progettato, costruito insieme, attraverso momenti di ascolto, sondaggi interni, tavoli di confronto. Solo così diventa davvero uno strumento vivo, utile, trasformativo.
Nella mia azienda Dami stiamo provando a farlo: con semplicità, con errori e tentativi, ma con tanta voglia di imparare; perché il welfare è un processo, non un prodotto. È cura quotidiana, è fiducia, è investimento a lungo termine.
Dunque, il welfare aziendale non è una “voce di bilancio” o una strategia per attrarre talenti. È una scelta di visione strategica, è decidere da che parte stare, che tipo di organizzazione si vuole essere, che futuro si vuole costruire. E in questa visione, le pari opportunità non sono un optional, ma il cuore pulsante.
E tu, che idea hai di welfare aziendale? Cosa ti piacerebbe trovare nel tuo luogo di lavoro? Scrivetemelo nei commenti o scrivetemi in privato. Perché Voci di donne è uno spazio di condivisione, e ogni voce conta.
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